…la guerra è inevitabile. Anzi, la corsa alla guerra lo è. ( A chi servono i venti di guerra?)

…la guerra è inevitabile. Anzi, la corsa alla guerra lo è. ( A chi servono i venti di guerra?)

Joe Biden disperato: deve risollevare un Pil allo 0,1%. Biden è crollato al 35% nei sondaggi.
Non esiste al mondo pericolo peggiore di un presidente Usa in crisi nell’anno delle elezioni di mid-term.
La Banca Centrale Russa si sbarazza di quasi tutti i titoli USA.
Timore che gli USA non riescano a restituire il denaro prestato?
Titoli di stato USA, la Banca Centrale Russa non si fida e vende (quasi) tutti quelli che aveva.

Partiamo dall’Ucraina.

Non solo il presidente ha annunciato l’invio di truppe statunitensi nei Paesi alleati dell’Europa dell’Est, di fatto svelando la natura falsa e strumentale della risposta scritta inviata alla Russia rispetto ai timori sull’allargamento ma – dopo averlo osteggiato per anni come il demonio -Biden chiede a Orban, – da presidente a presidente – di accogliere sul suolo ungherese i boots americani in arrivo in chiave anti-russa.
Il tutto mentre la Nato continua a condannare l’ammassarsi di truppe del Cremlino sul confine, nonostante lo stesso presidente ucraino Zelensky getti da giorni acqua sul fuoco e denunci una certa isteria bellicista dell’Alleanza.

Ma perché questa frenesia di guerra dall’altra parte dell’Atlantico?

l’economia Usa è già alle soglie della contrazione. La rilevazione del 28 gennaio parla chiaro: la crescita per il primo trimestre di quest’anno è allo 0,1%, un tracollo dal 5,6% di solo dieci giorni fa e contro un consensus medio del 3,3%.
Non a caso Bank of America pubblicava un report nel quale tagliava le previsioni di crescita per l’intero 2022, focalizzandosi soprattutto sui primi tre mesi, il cui tasso è stato rivisto dal 4% all’1% attuale.

Insomma, Joe Biden ha un enorme problema.

Contemporanea con l’inabissarsi del gradimento del presidente, l’Ucraina è cresciuta di presenza nelle news nazionali.
Insomma, la guerra è inevitabile. Anzi, la corsa alla guerra lo è.
Ma ecco che nel frastuono del conflitto, Washington muove silenziosa le pedine che davvero contano.
Gli Stati Uniti, infatti, apriranno un registro navale aperto nelle Isole Vergini, di fatto creando una nuova bandiera di navigazione con lo scopo di conquistare il controllo militare del mare attraverso quello commerciale.
Il tutto aumentando le tariffe, obbligano i grandi carriers internazionali a cambiare prezzi e operatività in favore degli interessi Usa, gettando le basi per una tratta antagonista a quella marittima della Belt and Road cinese.
Obbligando gli scafi a battere bandiera statunitense, tagliando fuori dal mercato carriers o porti sgraditi, utilizzando contractors privati per operare come charter al fine di garantire approvvigionamento di materie chiave e liberando la Marina Usa da compiti di pattugliamento che ricadranno su altri. Costi inclusi.
Gli Usa intendono utilizzare – al pari della Russia – il loro gas naturale per scopi geopolitici e strategici.
Ecco che l’appeseament (accordo ottenuto a prezzo di gravi concessioni) di Ursula Von Der Leyen verso Joe Biden nella ricerca congiunta di fonti alternative di approvvigionamento per l’Ue si rivela potenzialmente un cavallo di Troia e una scelta suicida.
In un solo giorno il prezzo del gas naturale Usa è esploso del 72% a causa di un colossale short squeeze sulle posizioni ribassiste schiacciate dal binomio di scadenze delle opzioni e previsioni di un febbraio polare per 45 milioni di americani che vivono nelle aree interessate da tempeste di vento e neve.
Di fatto, la prova provata che l’ipotesi di utilizzare i tankers statunitensi per soppiantare i flussi di gas russo equivale a una dichiarazione di resa dell’Europa e della sua industria. (estratto di Russiaaffari.blog dall’articolo di M. Bottarelli su Money.it)

Altra considerazione da fare è sull’enorme debito americano che suscita molti dubbi sulla capacità USA di restituirlo.

La Banca Centrale Russa non si fida e vende (quasi) tutti i titoli di stato USA (scrive Sputnik)
Dai 140 miliardi di dollari prima delle sanzioni i titoli statunitensi rappresentano ora meno dell’1% delle riserve valutarie internazionali.
I russi hanno allocato i fondi ricavati dalla vendita di treasuries in oro, euro e yuan.
Diversi fattori hanno contribuito al raggiungimento di questo risultato.
Prima di tutto, è in corso la cosiddetta dedollarizzazione, la quale sta contribuendo a ridurre la dipendenza dell’economia russa dalla valuta americana.
In altre parole, sbarazzandosi del debito pubblico americano, la Russia minimizza innanzitutto l’impatto delle sanzioni e dei rischi geopolitici.
Non si può escludere che gli Stati Uniti decidano di congelare i beni della Russia denominati in dollari e si rifiutino di pagare i propri debiti.
Inoltre la situazione finanziaria degli Stati Uniti è oggetto di dubbio per molti investitori dato l’enorme debito, che è sempre più difficile da gestire: si parla di circa 30.000 miliardi di dollari… in pratica si continua a prestare denaro a Washington, ma crescono i timori sul fatto che venga restituito.
Alla fine del 2021, la Banca di Russia ha aumentato le sue riserve d’oro a 2.300 tonnellate (74 milioni di once), ovvero circa 133 miliardi di dollari, il 21,3% delle riserve valutarie russe.
Una cifra così elevata conferisce ulteriore stabilità, garantire affidabilità, diversificazione e aumento del valore alle riserve valutarie russe. Oggi i paesi sviluppati detengono circa un terzo delle loro riserve in oro.